Di recente e da più parti si evidenzia, spesso con incomprensibile pudicizia, che il linguaggio dei politici è sempre più sciatto, cacofonico, privo di eleganza e, soprattutto, sempre più incline all'inosservanza delle regole morfosintattiche e grammaticali.
Nel nostro Paese, per dirla con il Presidente del Censis, Giuseppe De Rita, è in corso un processo di “imbagascimento” del linguaggio (“l'uso dell'italiano è finito a bagasce”), con consequenziale povertà sintattica, lessicale e logica.
Da ciò un vocabolario estremamente ristretto, un lessico gergale, strutturalmente povero, senza articolazioni e differenziazioni, “nei fatti vocazionalmente plebeo”, discorsi pregni di frasi fatte, motti alla moda, strafalcioni, parolacce e formule trite e ritrite.
Quando la politica, come in questo periodo, tende a rassomigliare alla gente, non a guidarla, si intravede e si capisce la sua chiara tensione a recepire e far proprio il linguaggio della gente comune, cui si chiede attenzione, opinione, consenso.
L'impoverimento del lessico politico è un fatto evidente: per accorgersene basta sfogliare un giornale, sbirciare un profilo facebook o un account su twitter di qualche leader o parlamentare. E il problema non è tanto il congiuntivo sbagliato, quanto la diretta correlazione fra l'impoverimento della lingua e l'impoverimento dell'offerta politica.
“E' la lingua che fa la nazione” - puntualizza il Censis - e “se la lingua è povera, allora la società rischia di essere povera”. Per Tullio De Mauro, il più noto linguista italiano, già Ministro della Pubblica Istruzione nel 2° Governo Amato, un modello di italiano era rappresentato dalla lingua della nostra Costituzione: precisa, nitida, trasparente.
La lingua italiana di oggi, invece, è appiattita, depotenziata, ben lontana da quella ricchezza linguistica e semantica riconosciutale per più secoli e che è stata, forse, il fattore decisivo per l'affermazione dell'unità e dell'identità nazionale.
Per secoli la lingua è stata sovraordinata alla società e non c'è dubbio che sia stata la lingua a guidare le trasformazioni dei processi sociali.
Ad esempio, anche don Lorenzo Milani, che conosceva il primato della lingua e della parola, vedeva nella padronanza della lingua la chiave, per i suoi ragazzi, dell’essere partecipi dei circuiti di conoscenza e decisione.
Per Don Milani «... è solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. La parola è la chiave di volta di ogni conquista ...” (Lettera a una professoressa, 1967).
Allora il linguaggio modellava il corpo sociale, mentre oggi sembra avvenire il contrario: la società si articola, si scompone, si deteriora, e tutto ciò conduce silenziosamente alla crisi della lingua.
Peraltro, non c’è da sperare che gli italiani pensino o scrivano come Leopardi e Manzoni: “roba passata”, obsoleta, per chi è saturo di televisione e di social media. Nel corpo sociale, onnicomprensivo e indistinto, c’è un abissale vuoto linguistico, in cui ognuno può scorrazzare a suo piacimento. La crisi dei partiti tradizionali, infatti, è stata prima di tutto una crisi linguistica.
L’italiano populista è altro da quello popolare, perché non solo non evita gli errori, ma li usa come nella retorica classica si usavano i vari ornamenti stilistici.
I suoi strumenti non sono più le clausole bilanciate, i parallelismi sintattici, le citazioni in latino o in greco. Sono le sgrammaticature, gli anacoluti, l'inglese maccheronico e gli inserti dialettali; sono le parole storpiate, le metafore sciatte, il turpiloquio, i verbi inventati, i congiuntivi sbagliati, l'uso scorretto dei pronomi e l'assenza della consecutio temporum (correlazione dei tempi).
La politica, insomma, cerca di parlare come parla il popolo. Viene dunque il dubbio che questa del “parlar chiaro”, cioè male, sia solo una truffa, non solo lessicale, di una classe dirigente inadeguata, che ha ceduto al fascino dell’antipolitica. Le cosiddette élite che parlano “alla pancia”, in una società post-ideologica, sono la spia di un regresso culturale, corrispondente a un pensiero prepolitico e non politico.
Dall'inizio della Seconda Repubblica, ossia dal 1994 in poi, l'elettorato ha cambiato (al ribasso) gusti e sensibilit・ mentre il prodotto che la politica gli ha offerto è diventato via via sempre più scadente e rozzo, una sorta di cibo spazzatura (junk food), dice il linguista Giuseppe Antonelli (Volgare eloquenza. Come le parole hanno paralizzato la politica, Laterza, 2017).
L'eloquenza di molti politici fa un uso distorto sia della parola che del concetto di popolo, un uso dal quale “discende quasi sempre una retorica dell’abbassamento”. Mitizzando il popolo sovrano – puntualizza il prof. Antonelli -, lo si tratta, in realtà, come un popolo bue, cui rivolgersi con frasi terra terra, come un bambino capriccioso da viziare in ogni modo, pur di portarlo dalla propria parte. Da qui una lingua che è, al contempo, paternalista e antipedagogica.
Si è passati dal periodo in cui i leader cercavano di usare un linguaggio aulico, con l'obiettivo prioritario di impressionare l'uditorio, ad un approccio che predilige "forme espressive elementari che hanno la funzione di simulare schiettezza, sincerità, onestà".
Dal "votami perché parlo meglio (dunque ne so più) di te" si è passati al "votami perché parlo (male) come te". Povertà linguistica e povertà cognitiva si accompagnano, interagiscono causalmente e si autosostengono: la grammatica diventa populista e il politichese si trasforma in politicoso.
Da legislatori, i politici usano una lingua rigonfia e oscura, mentre, da comunicatori, gli stessi politici usano “un linguaggio elementare, fatto di battute e parole effimere“. Sul versante scolastico la situazione non è certamente migliore. In Italia gli studenti non sanno l'italiano: scrivono male, leggono poco e si esprimono a fatica.
Da tempo i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare. Nel tentativo di porvi rimedio, alcune Facoltà universitarie hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana.
A tal proposito, occorre rammentare che il 47 per cento degli italiani, pur sapendo leggere e scrivere, non riesce a comprendere e interpretare la realtà che li circonda e le informazioni a cui sono esposti.
Tecnicamente si chiamano analfabeti funzionali e un analfabeta funzionale - secondo la definizione del Rapporto Piaac-Ocse del 2013 - è più incline a credere a tutto quello che legge in maniera acritica, non riuscendo a comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere con testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità.
La lingua, si diceva qualche decennio addietro, è strumento del pensiero, non solo perchè lo traduce in parole, permettendo all’individuo di ragionare, ma anche perchè sollecita e agevola lo sviluppo dei processi mentali.
Esiste, conseguentemente, uno stretto legame, sostenuto fin da Aristotele, tra pensiero e linguaggio: lo sviluppo del pensiero concettuale è connesso con quello della funzione linguistica e, pertanto, un limitato sviluppo del linguaggio riduce la possibilità di sviluppo del pensiero.
Un linguaggio più povero segnala un pensiero più povero. Il fatto drammatico è che sembra di assistere ad una assuefazione corale a questo degrado che da anni pervade il nostro Paese, con un effetto profondo di declino culturale del tessuto sociale. Dietro questa crisi del linguaggio non si può quindi non vedere la crisi del civismo in Italia e una preoccupante crisi del valore della stessa partecipazione democratica delle persone.
Una buona conoscenza della lingua è condizione essenziale per capire la realtà in cui si è immersi e comprendere gli altri, per conoscere usi, costumi, norme, per accedere a percorsi di inserimento scolastico e lavorativo.
La conoscenza della lingua si ripresenta come presidio democratico irrinunciabile, in ossequio al principio di uguaglianza formale e sostanziale sancito dall'articolo 3 della nostra Costituzione. (La lingua italiana e la crisi della comunicazione linguistica, Fondazione Giuseppe Di Vittorio e associazione Proteo Fare Sapere, 2017).
In ogni caso, si è stanchi dei maltrattamenti gionalieri dell'idioma nazionale e, soprattutto, della graduale e sistematica omogeneizzazione verso il basso di conoscenze, abilità e competenze.
Comunque, al di là degli accademici insegnamenti, mi ritorna in mente la bella poesia di Giosuè Carducci “Davanti San Guido”, in particolare, la vaporiera, la mandria di puledri al galoppo e il povero asino bigio.
“Ansimando fuggia la vaporiera... E di polledri una leggiadra schiera annitrendo correa lieta al rumore. Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo rosso e turchino, non si scomodò. Tutto quel chiasso ei non degnò d'un guardo e a brucar serio e lento seguitò”.
Oggi non ci sono più le vaporiere, ma è certamente in forte aumento la schiera dei puledri che corrono dietro al rumore. In Italia c'è ancora chi studia e spera che le cose cambino e chi, invece, dorme sonni tranquilli, nel convincimento, nient'affato peregrino, che, per alcuni ci sarà sempre e comunque un cardo da rosicchiare, soprattutto se la politica continuerà ad essere considerata un mestiere (fare politica vita natural durante), gratificante e redditizio, per il cui esercizio servono, probabilmente, qualità diverse dalla capacità (intesa in termini di intelligenza, cultura, ed equilibrio personale) e dalla competenza (che non coincide con la capacità di procacciare voti, bensì con la padronanza di saperi, abilità e abiti mentali).
Angelo Losavio