Accade a Lecce, nell’infermeria della Casa circondariale, nella sezione per il trattamento dei detenuti psichiatrici, dove il personale di Polizia penitenziaria profonde ogni sforzo per mantenere inalterati i precari equilibri della sicurezza penitenziaria, spesso instabili come lo sono le condizioni psicologiche di chi vi è ristretto.
Libero(il nome è di fantasia) ha terminato di scontare la sua pena, ha finito di pagare il suo debito con la giustizia, deve essere scarcerato.
Iniziano le operazioni di dimissione dal carcere, ma improvvisamente in lui affiora un malessere: si sdraia per terra, chiude gli occhi e si arrocca in un silenzio impenetrabile.
Interviene il personale medico e paramedico. I parametri vitali sono apposto. La diagnosi: Libero, semplicemente, non vuole uscire.
La situazione è paradossale, sembra il capitolo di un libro dal titolo “Storie al rovescio”.
Un caso simile per la polizia penitenziaria non è cosa di tutti i giorni.
Dall’altra parte la disperazione di una famiglia: la sua, che non può accoglierlo. Ma non lui, ma l’ “estraneo” che è in lui, quel disagio psicologico che negli anni lo ha trasformato da grazioso bambino dalle gote rosse a uomo dal volto scuro ed emaciato; quell’ “estraneo” che qualche anno prima ha rapito il suo corpo e la sua mente fino a spingerlo a maltrattare i suoi cari, che nonostante tutto hanno continuato a non fargli mancare assistenza ed affetto durante la detenzione.
Il carcere, però, non può più tenerlo, è l’imperativo della legge. In carcere ci si rimane solo se si ha da dare alla giustizia.
Iniziano le fasi convulse. Direzione, personale sanitario e di polizia serrano i ranghi. Si susseguono i contatti, si scandagliano gli anfratti normativi alla ricerca di una soluzione, si consultano strutture di diagnosi e cura, centri di salute mentale, servizi sociali, medici e specialisti interni ed esterni.
Le norme anti-COVID ci mettono il carico: l’accoglienza nelle strutture di sostegno terapeutico non può essere immediata.
Nel primo pomeriggio tutto si risolve. Libero respira l’aria al di qua delle sbarre. Viene dimesso ed accolto in una struttura di diagnosi e cura. Appare più tranquillo: non sarà solo contro quella metà di se stesso che gli è avversa.
L’onda lunga della sensibilità e della professionalità della Polizia penitenziaria hanno dato un esempio positivo di integrazione e di cooperazione tra amministrazioni pubbliche.
È la risposta che ci si aspetta dallo Stato e dalle sue Istituzioni, che talvolta è merce rara. A Libero, alla sua famiglia e ad ogni Uomo va la speranza di un nuovo giorno, com’è nel nostro motto: “DESPONDERE SPEM MUNUS NOSTRUM” (Garantire la speranza è il nostro compito).
Comunicato a cura di UILPA (Polizia Penitenziaria) e del segr. prov. Diego Leone